World Eating Disorder Day 2022 – Lettera di Alice
Cari tutti,
ammetto di non riuscire a trovare le parole adeguate con le quali iniziare questo scritto, che desidera essere per voi tutti una testimonianza di luce e speranza e per me una chiave con la quale cercare di chiudere una porta ancora parzialmente aperta su un doloroso passato. Mi chiamo Alice e mi sono ammalata di anoressia nel lontano 2013. Ero poco più che una ragazzina, ma avevo già subito una profonda ferita ed un senso di rifiuto e negazione dal mondo esterno in un momento per me di grande sofferenza psicologica. Dopo anni di analisi sono arrivata alla conclusione che quel male che poi ha preso completamente il possesso ed il controllo della mia mente e del mio corpo per sette lunghi anni sia iniziato come una estrema tacita richiesta di aiuto ed amore. Speravo con tutta me stessa di riuscire a comunicare agli altri con il mio progressivo deperimento fisico quella lacerazione nell’animo che non riuscivo a comprendere e superare, che non avevo il coraggio di esprimere a parole. Sono sempre stata una ragazzina tranquilla, ho sempre avuto ottimi voti, sono riuscita ad eccellere nello sport agonistico che ho praticato con costanza per moltissimi anni, sforzandomi di mostrare agli altri una versione di me stessa totalmente costruita sulla base di quello che io ritenevo essere il modello più appropriato: la perfezione. Ma dentro di me sapevo di essere lontana anni luce da quel concetto e tanto più questa umanissima realtà mi risultava evidente tanto più mi sforzavo con tutte le energie di adeguarmi a questa deleteria astrazione. Mentre sceglievo di non mangiare sceglievo di togliere il nutrimento alla mia anima, annullando anche i miei sentimenti, anestetizzandomi completamente nei pensieri e nelle emozioni. Nel conteggio ossessivo delle calorie assunte e bruciate cercavo una fuga evasiva dall’inevitabile confronto con me stessa e con l’oscurità dei miei demoni.
Ho pochissime foto di quel periodo, ma la costante che ho retrospettivamente notato con un nodo in gola osservando quegli scatti è l’assenza di vita nei miei occhi. La malattia mi aveva completamente trasformata, non riuscivo più a riconoscermi e dentro mi sentivo completamente rotta. La mia mente era ormai incatenata in un rimuginino di ansia, depressione, senso di apatia e indifferenza verso la vita. Ho desiderato spesso di non dover sopportare quello che per me era ormai diventato l’intollerabile peso del risveglio successivo. Ho iniziato a pensare di non essere adatta a questo mondo, a desiderare ardentemente di interrompere definitivamente un’esistenza vana, esclusivamente votata alla pura ed autentica sofferenza.
Non ho mai avuto il coraggio di parlarne con nessuno, sopraffatta da un senso di indicibile delusione e vergogna. Ho chiesto aiuto ad un centro specializzato relativamente tardi e me ne pento. Perché questa attesa ha provocato una sofferta ricaduta proprio nel momento in cui pensavo di essermi lasciata il peggio alle spalle e con essa un senso di perdita, vuoto e fallimento. In verità non mi ero accorta che quello che fino ad allora avevo ritenuto essere per me l’unico strumento utile con cui far notare la mia presenza e ricevere aiuto si era inevitabilmente trasformato in un’arma che non riuscivo più a gestire e dalla quale, al contrario, venivo totalmente manipolata. Ho chiesto aiuto relativamente tardi e me ne pento, perché in qualche modo ho lasciato anche la mia famiglia in un limbo di incertezze, di paure e frasi non dette che a lungo andare hanno subdolamente minato l’autenticità dei rapporti e della comunicazione. Ricordo le bugie sui pasti, la rabbia nei confronti dei miei che mi sembrava non fossero in grado di capire assolutamente nulla di quanto stessi passando, il desiderio di tagliare i ponti e chiudermi nel mio dolore. Solo con il tempo sono riuscita a mettermi nei panni di quanti hanno cercato di starmi vicino con tutto il loro cuore e magari hanno commesso errori o mancanze perché privi degli strumenti più giusti per affrontare un male così terribile e oscuro.
Quello che mi sento di dire a tutti voi che mi state leggendo è quindi di lasciare andare, di assolvere il vostro spirito dall’onere della ricerca della causa, dall’ obbligo di espiazione verso ogni inutile senso di colpa. Ho cercato a lungo anche io il significato di quanto accaduto, ma con il tempo ho realizzato che l’unico valore che potevo dare alla mia esperienza fosse quello di renderla un’utile testimonianza per chi purtroppo ora si trova a vivere quanto io ho attraversato e superato. Ciò che ho imparato è che è necessario, con il tempo, giungere all’accettazione e al perdono. Perché i DCA non sono un capriccio che si cerca con volontà di intenzione: sono un male nascosto che può colpire anche chi sembra abbia già avuto tutto dalla vita, lasciando cicatrici profonde e difficili da sanare.
Ma dal tunnel dei DCA si può uscire; con l’amore di chi ci è vicino, di noi stessi per noi stessi e l’aiuto di professionisti si può guarire. Chi ci affianca nel percorso può solo essere di supporto, sta a chi avanza nella tempesta combattere con forza e tenacia per riprendersi a morsi la propria vita.
“Ordo renascendi est crescere posse malis”: questa citazione derivata dall’immensa sapienza degli antichi è diventata il mio più prezioso motto di vita, perché mi ricorda come l’essenza della rinascita consista nella capacità di crescere attraverso i mali. E appunto mi piace pensare che, nonostante nella vita accadano cose che ci tirano giù e ci fanno perdere la nostra parte più bella, sta a noi ricordare che possiamo riprendercela. E rifiorire più di una volta a nuova luce.
Alice